Il Servizio pubblico come dovere sociale

Ci sono molti aspetti ignorati da tutti riguardo alla votazione del 4 marzo sul canone: quello a mio avviso più importante è quello che identifica il servizio pubblico come una componente dello Stato, tanto importante da imporci di capire come la nostra scelta del 4 marzo non sarà quella di confermare o meno il canone radiotelevisivo ma di confermare o meno una componente essenziale dello Stato, cioè il servizio pubblico.


Per spiegarvelo bene torno a quando ero bambino: ricordo due momenti sacri della giornata, ed erano il pranzo e la cena. Lo erano perché la famiglia stava insieme, lo erano perché per chi era nato durante la guerra mangiare tutti i giorni era ancora una novità, ma lo erano soprattutto per i due appuntamenti che coincidevano coi pasti: il radiogiornale di Radio Monte Ceneri a mezzogiorno e il Regionale e il TG la sera, all’ora di cena!
E ricordo che durante quelle trasmissioni bastava aprire la bocca per sentirsi dire un immediato e perentorio “Fa’ cito!”: c’erano le notizie del nostro Ticino e della nostra Svizzera ed era nostro dovere ascoltarle con attenzione! Questo era il messaggio.
Ma la cosa interessante è che fosse così praticamente per tutti. Ricordo infatti che mio padre vendeva televisori e da bambino spesso lo accompagnavo quando li consegnava a casa dei clienti. Avevo imparato a impostare i canali, e l’ordine richiesto dai clienti era sempre lo stesso: sul tasto 1 la TSI, poi la “tedesca”, la “francese” e poi le altre. Certo: noi a Olivone avevamo anche le “altre”, perché già negli anni ’70 quel sognatore di mio padre aveva messo un’antenna su una montagna per captare prima le RAI, poi persino i canali privati come Canale 5, Rete 4 e consorelle.
Però, il tasto 1 della tele, e se c’era del telecomando, era impostato sulla TSI, sulla Nòsa!

Questo per dire cosa? Per dire che la nostra televisione non era vista come un media, ma prima ancora era intesa proprio come servizio pubblico: quel servizio pubblico che lo Stato mette a disposizione dei propri cittadini per informarsi sul nostro territorio, sulla nostra politica, sulla nostra cronaca e su tutto quanto riguardi quella civiltà che negli anni Settanta ancora volevamo consapevolmente costruire e di cui ci sentivamo parte.
Non c’era chi non guardava il Regionale o il TG perché “Ormai rubano tutti”, o perché “Ormai non è vero niente”, ma c’era un’empatia, una conoscenza e una partecipazione del cittadino nei confronti dello Stato che oggi ci sogniamo.
Eravamo orgogliosi dei nostri politici, eravamo orgogliosi di aziende che funzionavano come orologi: le PTT, le aziende elettriche e tutto l’apparato statale erano motivo d’orgoglio e non di rabbia. E così era anche per la nostra cronaca, per la nostra politica – fatta da gente di altro spessore – e per la nostra cultura: anche quando c’erano i Giochi senza frontiere quasi tutto il Ticino era incollato alla TSI per “tenere” ai nostri!

Certo: erano altri tempi e il popolo ticinese era formato prevalentemente da ticinesi e da italiani: dalla jugoslavia sono arrivati dopo e da altri Paesi dopo ancora, per cui – e io non sottovaluterei questo elemento – ai tempi la nostra popolazione parlava quasi tutta italiano, e anche aveva culture simili.
Quindi è chiaro che il servizio pubblico è oggi necessario più che mai, e lo è per ricostruire lo Stato e il senso dello Stato che in parte per colpa del marketing e dell’economia e in parte per colpa delle tante culture diverse mescolate troppo rapidamente ha bisogno di ritrovare uno spazio, un sentore e un discorso comune.
Ecco perché il 4 marzo dobbiamo difendere il servizio pubblico, perché è una componente essenziale dello Stato! Poi, dopo, bisognerà fare una seconda battaglia, questa volta per riformarlo: per fare le necessarie modifiche così da riportarlo a essere di nuovo più un servizio pubblico che un media.
Sì al servizio pubblico dunque: da riformare, certo, ma necessario! Necessario a uno Stato come l’acqua per i pesci!



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